Contatto
Biografia   Mostre   Grafica   Pittura   Scultura   Ceramica   Fotografia   Digipaint   Studio grafico   Editoria   Rassegna stampa   Contatto
 

 
 Mostre/
Heart Art      
Quadri in vetrina|     Antologica|     Paesaggi d'Amare|
 
 


 Visita la galleria
 

Molte manifestazioni contemporanee richiedono chiavi di lettura tali da rendere la loro comprensione accessibile solo a un pubblico ristretto; al tempo stesso, in molti casi, la critica d’arte, piuttosto che indirizzarsi verso un’attività di mediazione tra il fruitore e l’opera, al fine di facilitarne al massimo la lettura, si è orientata verso soluzioni di un ermetismo tale da rendere il testo scritto ancor più indecifrabile di quello figurativo, escludendo dal godimento estetico - che è frutto anche della conoscenza dei fenomeni - una vasta area di pubblico indirizzata verso esperienze culturali di più facile uso e di più rapido consumo.
L’operazione estetica che Uberto Carradori ci propone, basandosi al contrario, proprio sulla esplicita intenzione di ricercare il dialogo ed il confronto con la cittadinanza su temi esistenziali e sociali che sono del vissuto quotidiano sia del singolo che dell’intera collettività, si presenta facilmente leggibile, al di là delle connotazioni simboliche e delle valenze metaforiche in essa presenti.
Ricordate la riflessione maturata da F. Arcangeli in un passato non più tanto recente, a proposito del “fare artistico” nella provincia: “sappiamo, o crediamo di sapere, quel che vuoi dire restarci: i grossi pericoli e i non scarsi vantaggi. Sorvoliamo sui vantaggi, che possono essere gli ovvii vantaggi della provincia. Tentiamo invece di meditare sui pericoli di ignoranza, di ritardo, che la provincia produce, se non è culturalmente riscattata, se produce insormontabili passività, Il pericolo di sfondare le porte già aperte rimane il più evidente” (F. Arcangeli, “Una situazione non improbabile” in “Paragone” n. 86, settembre
1956)?
E, in effetti, capita spesso, non solo dentro ma anche fuori dei confini della “provincia” di trovarsi di fronte ad esperienze artistiche ripetitive (se non addirittura imitative di ben altre esperienze, ormai sedimentate e storicizzate, che hanno costituito il meglio dell’arte contemporanea) le quali, il più delle volte, non rivestono particolare significato.
Non ci sembra che sia il caso di Uberto Carradori né dell’ambiente artistico fanese nel suo insieme, il quale dal secondo dopoguerra in poi si è posto, e si pone, in un aperto atteggiamento di ricerca e di confronto con quelle realtà artistiche che a livello nazionale ed internazionale sono state, e sono, capaci di sollecitare, di volta in volta, il dibattito culturale. Un dibattito che ha sempre trovato nel particolare tessuto umano e sociale della città, validi e sensibili interlocutori, molto partecipi ai fatti della cultura e dell’arte. Metteva in luce Francesco Lista, nel presentare l’Accolta dei 15 del 1979 proprio “il clima fervido, vivace, caldo, simpaticamente polemico, che si avverte in questo spazio che è Fano ove protagonisti e spettatori, ognuno nel proprio ruolo, partecipano all’avventura artistica; un clima in cui la temperatura monta per la convinzione posseduta da ogni artista della suprema validità del proprio mezzo espressivo che se in tanti casi assume solo un significato velleitario, rappresenta pur sempre per gli artisti autentici, la necessaria temperie della creatività”.
Se è vero che le espressioni grafiche e plastiche che Carradori sottopone alla nostra attenzione sono opere “indeterminate” quanto basta per sollecitare l’osservatore a svilupparle o completarle secondo possibilità interpretative diverse e variabili (in modo particolare i Monoliti che potrebbero indurci a opportuni ma inesatti riferimenti all’arte povera”, alla “land art” o all”ecologic art”) è ancora più vero che esse, in quanto visualizzazione del modo di essere di un artista romantico, molto legato alla sua terra, il cui vero interesse è il rapporto dialettico tra l’uomo e la natura - sentita e vissuta con spontaneità - rimandano ad una linea di ricerca e ad una tendenza realista/naturalista che ha costituito la linfa vitale di gran parte della produzione artistica indigena. Persino nei Monoliti, infatti, la rottura delle convenzioni del discorso comune a favore di una “logica delle immagini” più insolita, sostanzialmente non nega la forma (senza la quale verrebbe meno la condizione indispensabile per comunicare) neppure quando ci sembra di essere di fronte ad un disordinato inventano di emozioni: il quale altro non è che una “natura morta”, testimonianza di un rapporto tra l’artista e la realtà che nasce dal profondo del cuore, di un attaccamento viscerale all’ambiente e al suo vissuto, di una ricerca artistica alle cui origini sono, ancora una volta, la terra, il mare, insomma la natura nel suo complesso, nel solco di gran parte della tradizione artistica locale: più “HEART ART” che”EARTH ART” in definitiva.
Questi motivi, sostenuti da un forte - quanto antico - impegno ambientalista, costituiscono nella ricerca di Carradori una costante tale da riassorbire in sé preoccupazioni di stile e di linguaggio: è spesso frequente il prevalere dell’interesse per i contenuti, sull’interesse per la forma anche se tale assenza di formule codificate attorno a cui operare e di un definito indirizzo estetico di riferimento è interpretabile come dato positivo proprio per la libertà espressiva e creativa che implica.

Circa un anno fa Carradori aveva presentato alla città una personale, decentrata, mettendo in mostra 50 serigrafie in 32 negozi del Centro Storico, allo scopo di “sdrammatizzare” l’incontro tra le opere e il pubblico. Anche quest’anno egli si pone in rapporto con uno spazio collettivo di quotidiana fruizione quale l’area adiacente la chiesa di S. Domenico, nel cuore del centro cittadino.

Carradori ci presenta fotografie, serigrafie in bianco e nero o colorate, con acquarelli e tempere, modelli in terracotta patinata e trattata per la fusione in bronzo, manufatti monumentali ispirati - solo ispirati! - alla poetica dell’Informale, opere diverse e distinte quanto a linguaggio, ma unitarie e coerenti quanto a contenuto poiché, basandosi, tutte, sulla contrapposizione dialettica di natura e cultura (tecnologica) ci riportano, tutte, ai gravi problemi di questa nostra fine di secolo.
Le fotografie esposte sono un’interessante testimonianza degli interessi ambientalisti dell’autore in un’epoca in cui tali temi non avevano ancora avuto una larga diffusione: esse fanno parte infatti di una serie di immagini scattate negli anni sessanta e raccolte sotto il titolo “ Dallo zucchero all’acido - Fano 1970” allo scopo di documentare l’inquinamento del nostro Metauro e provocare adeguate reazioni emotive.
Nelle serigrafie accanto al bianco e nero - privilegiato nelle fotografie - troviamo il colore, progressivamente introdotto come stimolo emozionale di ulteriore intensità ed efficacia. Esse si avvalgono di un linguaggio metaforico, che rende l’atmosfera rarefatta e sospesa; l’ambientazione è onirica, il messaggio è implicito ed affidato soprattutto al tema più volte riproposto della Maschera, disposta in ordine geometrico e razionale in un contesto quanto mai disordinato ed irrazionale: il paesaggio reale della nostra valle e l’immagine, colta dall’obiettivo fotografico, di una natura in agonia ma comunque ancora viva, sono qui solo evocati, di essi si avverte perdersi l’eco in desolate lande battute dal vento che trascina con sé lattine vuote senza peso, come foglie secche. L’uomo si confronta, in un assoluto silenzio, con gli immensi eventi da lui stesso scatenati sulla natura, ma questo stesso uomo non ha più braccia per costruire un futuro: il massimo che può fare èriflettere l’ombra di sé stesso, incatenato alle radici di un gigantesco albero morto, dai rami secchi, unico ed ultimo punto d’appoggio di un Bianco Maschio, titanico ma impotente e sterile, che altri non è che il fantasma dell’idea che l’Occidente ha di se stesso. Dettagli naturalistici risolti in chiave surreale, oggetti privati della loro funzione divenuti relitto sulla riva di un mare o ai bordi di una campagna privi di presenza umana, maschere sentite come l’ultimo diaframma prima dell’incontro definitivo ed irreversibile con la materia dietro le quali c’è il niente poiché non c’è più niente e nessuno da nascondere, sono gli elementi costitutivi di un dissestato mondo inanimato, fatto di rovine congelate dall’aria fredda di un emisfero senza sole, allusive ad un disastro che da qualche parte è già o è già stato, ma che è proiettabile ovunque in un non lontano futuro.
E’ l’autunno di un’era e di una civiltà: una civiltà che non vuole “vedere” l’invecchiare e la vecchiaia né delle cose né tanto meno degli uomini, capace di assimilare chi non consuma e chi non produce merce da consumare ad un relitto solitario e inerte in un paesaggio solitario e spoglio, ma che non è in grado di “vedersi” per quella che si è avviata ad essere: essa sì, una società vecchia il cui ceppo ha le radici in una terra bruciata. Perché vive finché vivono gli oggetti, prigioniera di un tempo che non può essere spiritualizzato ma solo “ materializzato”, poiché è un tempo che si è fatto materia, che ha rinnegato la propria vocazione all’eterno, ad essere tempo immaginato con lo spirito e che preferisce misurarsi con la durata di una Barbie di plastica, piuttosto che con l’eternità.
E restano soltanto lo squardo di un vecchio appoggiato alla bicicletta (la cui ruota diventa tema talmente reiterato, dalle serigrafie più surreli ai Monoliti, da acquistare un valore di simbolo), perso in solitudine nella visione del porto e la macchia gialla delle ginestre n fiore, a darci la misura di quanto e di cosa stiamo perdendo: nelle serigrafie è suggerito, più che provocatoriamente gridato, il pre-sentimeno dell’imminente caduta. Nel linguaggio grafico infatti la denuncia è smorzata, si stempera fino a diventare un avvertimento appena bisbigliato grazie anche all’adozione di soluzioni figurative ampiamente accettate dalla tradizione. La metafora della solitudine, espressa sottovoce riesce perciò ad essere qui addirittura gradevole e piacevole.
Essa si esaspera invece nella produzione plastica nella quale dominano le figure singole deformate espressionisticamente e modellate con un fare aggressivo ed irruento che sembra inchiodarle ad una totale impossibilità di ascolto di Altro da sé: in esse e nella loro patente ossessione onanistica ritornà il tema di alcune serigrafie allusivo ad una civiltà ormai incapace di ri-prodursi, di dia-logare, di ri-conoscersi nell’Altro (Uomo e Natura), incapace di farsi ancora generatrice - secondo i più naturali dettami del buon “Senso” (= dei “buoni sensi”) - di materia pura, poiché sfinita da un incessante processo procreativo di materia-rifiuto, di materia-spazzatura.
Tuttavia, è proprio nelle sculture che si manifesta la schietta e generosa ispirazione del Carradori - dalla quale ha origine e trae ragion d’essere il percorso stesso della mostra - condensata nella altrettanto potente copula che si consuma, polemicamente e rabbiosamente di fronte al pattume dei Monoliti, come “naturale” risposta alla disperata solitudine prodotta da un degrado morale, civile ed ambientale di dimensioni ormai così epiche da far impallidire il ricordo dell’anno Mille e dei suoi medioevali terrori.
Le suggestioni sessuali e le implicazioni sensuali sono essenziali nella produzione plastica di Carradori e fondamentali nel suo intero mondo poetico, in quanto costituiscono un nodo centrale del rapporto tra l’Uomo e la Natura: la partecipazione al “naturale” non sarebbe infatti globale se in essa non fosse coinvolto l’atto sessuale inteso soprattutto come atto generativo, fattore primo di nuova vita e perciò di riscatto e di speranza. Una risposta (forse velleitaria ed utopistica ma capace di coinvolgere emotivamente grazie alla sua carica di dirompente ottimismo) ad una situazione che Carradori non accetta che si debba subire né con la rassegnazione dei decadenti né con le isterie dei predestinati.
E’ una risposta - certo soggettiva e parziale ma nella quale l’artista crede con tutto sé stesso al punto da ritenerla l’unica salvifica - anche ai Monoliti e a tutto ciò che essi rappresentano.
Eccoci infatti ai Monoliti dove tutte le precedenti tematiche trovano la loro più compiuta esplicitazione ed espressione, sorrette da un intento provocatorio non fine a sé stesso anzi, persino un po’ didascalico nella loro volontà di denuncia di una condizione esistenziale al limite dell’umano.
La natura anche nei Monoliti è presente, lo è anzi concretamente, anche se da immagine viva si è fatta reperto archeologico, con quel tanto di ripugnante e di repellente che si associa al vago sentore di discarica o di obitorio che da essi emana, nonostante l’azzurro di fondo la cui presenza risulta anzi grottesca. Materiali eterogenei, frammenti, brandelli di vita vissuta, bambole, biciclette che hanno avuto una loro storia nella storia degli uomini e che da questi sono state respinte in un limbo senza storia, imprigionate in una materia schiumosa e vischiosa solidificatasi e stratificatasi quasi geologicamente diventano in queste monumentali strutture un documento storico importante, un’impronta del passaggio dell’Uomo - di un certo Uomo - su questa terra, la testimonianza - di una possibilità data e di un’occasione perduta - , per l’archeologo che tra migliaia di anni andrà alla ricerca del nostro presente.
Sgradevoli oggi nel loro essere “vecchi” e sporchi, privi della loro originaria funzione pratica, immersi nel liquame e nelle mucillaggini, cosa racconteranno di noi quando così si presenteranno agli occhi di chi vorrà sapere il perché della catastrofe? Dunque, sarà forse la Natura - se è vero che essa vince sempre la Storia a rielaborare tutte queste cose e a farne - chissà - qualcosa di bello? O siamo già al punto in cui sarà la Storia, cioè il segno dell’uomo, a vincere per sempre la Natura?

FRANCESCA V. MASCARIN
FANO - NOVEMBRE 1989